23 maggio 2011

L'INTERVISTA






Quando, alcuni mesi fa, come gruppo di minoranza e come redazione de Il Sfuei, abbiamo cominciato ad interrogarci su come dare un contributo alla memoria di quegli eventi ormai lontani nel tempo, ma ancora tanto presenti in molti di noi (sul perché farlo ci siamo già espressi negli interventi sopra riportati), è nata l’idea di porre delle domande ad alcuni dei protagonisti della ricostruzione di Venzone. La formula che ci è parsa migliore è stata quella di una sorta di tavola rotonda in cui le voci ed i pensieri dei nostri interlocutori potessero intrecciarsi e completarsi vicendevolmente.
Abbiamo parlato con Remo Cacitti, professore associato di Storia del Cristianesimo antico presso l’Università degli Studi di Milano; Francesco Doglioni, professore associato di Restauro dell’Università Iuav di Venezia; Maria Pia Rossignani, professore ordinario di Archeologia presso l’Università Cattolica di Milano e Antonio Sacchetto, Sindaco del terremoto.
E’ impresso nella vostra memoria un momento, un’immagine, un ricordo di Venzone che riacquista il suo volto durante la ricostruzione?

Cacitti: Le fasi dell’installazione delle capriate del Duomo. A quello spazio che, dal 15 settembre 1976, era rimasto aperto, senza discontinuità fra dentro e fuori, veniva ridata compiuta forma: finalmente si poteva percepire il passaggio dal caos della distruzione all’ordine della ricomposizione. Il terremoto non aveva avuto l’ultima parola, perché alla sua violenza “naturale” avevamo saputo opporre la nostra forza “culturale”, capace di far deviare l’inesorabile corsa verso la rovina (fisica e morale) in progettualità, scienza, tecniche, partecipazione popolare, rapporti istituzionali.

Doglioni: Nel tardo pomeriggio del giorno che precedeva l’inaugurazione, nella chiesa di S. Giacomo e Anna, appena ricostruita dagli artigiani di Venzone condotti da Armando Copetti, sono entrate alcune donne per pulire i vetri, e il coro ha iniziato le prove. Ricordo l’intensa emozione che ho provato a sentire quelle voci, in quel primo momento di riacquistata normalità.

Rossignani: Era il 16 dicembre del 1982, ero tornata a Venzone per accompagnare nel suo ultimo tragitto una persona che mi era stata cara; mi chiamava “frute” e mi aveva detto sempre poche parole, che conservo ancora nel cuore, come il suo ricordo. Era una giornata tersa e fredda; mentre percorrevo con il corteo funebre il tragitto lungo le mura, ho alzato lo sguardo e, sopra il profilo del paese distrutto, ho visto, illuminate dal sole, le gru dei cantieri da poco tempo aperti: in quel momento ho avuto la certezza che la ricostruzione era iniziata e, nonostante il momento triste, sono stata felice. Tutte le fatiche, i contrasti, le delusioni e le speranze che avevano connotato la nostra azione facevano parte di un passato e il presente era costituito da quelle frecce luminose che si stagliavano nel cielo. Altri momenti duri aspettavano la comunità di Venzone (il più crudele di tutti, perchè volontario, l’incendio al capannone in cui erano ricoverati gli arredi del Duomo, divampato in una tragica notte della primavera del 1983), ma il processo era ormai inarrestabile.

Sacchetto: La più bella immagine che ricordo è successiva al varo della legge n. 2 del 1982, che consentiva la ricostruzione filologica della nostra cittadina e di via Bini a Gemona: e cioè vedere Venzone con una foresta di gru svettanti con i bracci orizzontali, che come in una danza ruotavano sfiorandosi. Era stata posta attenzione a far loro ottimizzare lo spazio limitato a disposizione. 
Per me, dopo anni di lavoro per portare a compimento l’enorme attività di progettazione, questo momento ha rappresentato il simbolo della rinascita.
Qual è stato l’impulso che ha animato la vostra azione, il vostro intervento? E nella società di oggi esiste ancora questa nozione di impegno?

Cacitti: Uno dei migliori libri scritti sul terremoto ha per titolo “Pa sopravivence, no pa l’anarchie”. In effetti, l’impulso primario è stato quello della sopravvivenza, il che ha significato porsi immediatamente la questione di cosa fare, come reagire, in che direzione muoversi; si è senza indugio pensato al futuro e, nel nostro caso specifico, a quale ipotesi ricostruttiva del territorio far riferimento. Si è allora imposto il confronto con le esperienze più prossime di ricostruzione dopo catastrofe, cui dedicammo anche un convegno di studi. La prima opzione fu ideologica: il territorio, l’urbanistica, l’architettura, i beni culturali investiti dal terremoto rappresentavano, a nostro giudizio, le variegate sfaccettature di un unico prisma, quello dell’identità friulana. Se, allora, la questione era incentrata preminentemente sulla tutela della lingua, noi allargammo la visuale anche a questi ulteriori aspetti, convinti che i caratteri propri di una nazione si configurassero anche nella sua cultura materiale, nell’antropizzazione del territorio, nelle sue architetture, nei suoi manufatti artistici, cioè nella sua cultura. Questa scelta fu oggettivamente favorita dal discredito di cui godeva quella opposta, ben sintetizzata dalle infauste parole che allora si sentivano spesso: “La ruspa è il primo passo verso la ricostruzione”. In realtà, le modalità di ricostruzione dopo catastrofe più prossime, quelle di Longarone (1963) e quella del Belice (1968), stavano a testimoniare che sulle rovine di quei luoghi era stato sparso il sale della speculazione, dell’improvvisazione, dell’incompetenza, della volgarità, della bruttezza. Era possibile evitare il ripetersi di questi fenomeni, che l’allora Arcivescovo di Udine, al rientro da una visita in Belice, aveva santamente definito “genocidio culturale”? La risposta poteva essere data all’interno delle mura stesse del centro storico, riconsiderando il lavoro di ricomposizione per anastilosi portato a termine alla fine degli anni ’50, dopo la distruzione bellica, del palazzo municipale. L’istituzione dell’Ufficio comunale di progettazione e restauro – da noi fortemente voluto e ben attivo nell’estate del ’76 – intendeva appunto dar prova che si poteva restaurare e ricomporre le membra disarticolate di un organismo ancora dotato di vita. Tale organismo è costituito dai cittadini, per cui spettava a noi tutti ridare forma, nel consesso civile, a Venzone. 

Rossignani: Ciascuno ha una sua storia, ma la storia di molti fra quelli che hanno operato come volontari a Venzone era una storia condivisa, aveva le sue radici nell’impegno civile e politico scaturito nella svolta epocale che ha inciso nella storia d’Italia, come in quella di molte altre nazioni europee, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Fra i tanti slogan, uno “il personale è politico” riassume bene quali erano le spinte e le convinzioni di quegli anni, che non erano poi molto lontani dal 1976. Anche il libro che abbiamo voluto scrivere: “Le pietre dello scandalo. La politica dei beni culturali nel Friuli del terremoto” uscito nel 1980, rientra in questa logica, convinti come siamo stati che l’esperienza che avevamo vissuto e che stavamo vivendo richiedesse di essere sottoposta ad analisi per poter servire ad altri. Di quel libro vorrei riproporre un passo della densa e lucida prefazione di Andrea Emiliani, colui che ci aveva insegnato a leggere e a riflettere sul concetto stesso di «patrimonio culturale» e sulla necessità della sua difesa: “Un «libro bianco» come questo [...] disteso in mesi accalorati e drammatici, pretende di riportare a oggi, cioè a quattro anni di distanza, il fervore individuale e sociale dell’intervento, sovrapponendo purtroppo a quello anche la malinconia della disillusione. Tutto questo serve ad andare avanti. Non si tratta infatti del solito cahier de doléances, anche se oggi più che allora l’intrico delle competenze, delle responsabilità, delle scelte e non scelte, s’é fatto così fitto e minaccioso da non poterne uscire se non con disaffezione e profonda mestizia. Le affermazioni di allora portano, certo, il peso della fatica di un penoso cammino. [...]  Ripeterle oggi significa soprattutto non aver voluto perdere il senso di quella partecipazione anche animosa (come avrebbe potuto essere diversa?) ma voler contribuire ancora alla risoluzione di un problema gigantesco”. La mestizia di cui si parla è oggi raddoppiata, centuplicata, nel seguire le notizie che riguardano L’Aquila, che portano a constatare amaramente quanto sia difficile o addirittura non si voglia, nel nostro paese, fare tesoro delle esperienze pregresse.
Rispondere alla seconda parte della vostra domanda non può essere il semplice «no» che sarei tentata di dare. Perchè è necessario allargare lo sguardo alle condizioni in cui vive la nostra società, all’atrofia del pensiero, certamente indotta e alla quale non si è in grado di contrapporre modelli convincenti di impegno sociale e politico nei quali – soprattutto i giovani – si possano riconoscere. Eppure sono certa che le forze e le potenzialità ci siano, ma è necessario risalire la china di questa disgregazione, mettendo a punto modalità di intervento che, in una società mutata, non possono che essere diverse da quelle che hanno visto la nostra partecipazione volontaria nel Friuli terremotato. Questo non solo perché nei casi più recenti di catastrofi – mi riferisco al terremoto aquilano – il volontariato è stato fortemente disincentivato, ma anche e soprattutto perché  sono venute meno, mi sembra, le condizioni che possano favorire aggregazioni e mobilitazioni sulla base di spinte ideali e politiche. Sarebbe allora necessario e possibile fare sì che Università e istituzioni culturali siano  riconosciute come soggetti in grado di offrire conoscenze e competenze, mettendo a punto strategie di intervento che favoriscano un coinvolgimento democratico e civile.
Ma democrazia significa anche controllo e questo, in molti casi, fa paura.

Sacchetto: Nel 1975 per la prima volta fui eletto sindaco con una lista che oggi si direbbe di “centrosinistra”, avevo 36 anni e dopo appena 10 mesi mi sono trovato ad affrontare l’emergenza.
L’evento propulsore che ha stimolato la nostra azione è stato la manifestazione “Venzone vive”: un momento di aggregazione e di confronto tra diversi attori, tra cui ricordo l’Università della Pennsylvania, esperti da Varsavia (ricostruita per anastilosi dopo la guerra), da Praga, studiosi di livello internazionale e amministratori locali.
E’ stata l’occasione per chiarire con la popolazione le modalità di ricostruzione e di comparare diversi modelli.
Qual era il sentimento dominante in paese, cosa spingeva la gente a sostenervi e a reagire?

Cacitti: In tutto il Friuli terremotato emerse spontanea l’istanza di partecipazione al processo di ricostruzione: la formazione dei comitati cittadini, il coordinamento fra le tendopoli prima e le baraccopoli poi, la frequenza delle assemblee popolari, la fitta rete di comunicazione attraverso ciclostilati, fogli, giornali. Tutto ciò costituì un chiaro indicatore della volontà di non delegare supinamente la delineazione del progetto ricostruttivo, rivendicando il diritto delle popolazioni a costituirsi come soggetto attivo e informato in ogni fase dell’immenso cantiere che si stava aprendo. Il Friuli rappresentò una netta cesura rispetto ai modelli centralistici e verticistici con cui si era fino ad allora operato per affrontare la catastrofe: se questa innovazione molto giovò successivamente nelle Marche e in Umbria (1997), anche per l’apporto di esperienze nate a Venzone, al contrario in Irpinia (1980) e recentemente a L’Aquila (2009) si è ritornati a una gestione assolutista, secondo il motto asburgico assunto anche dagli attuali despoti: “Tutto per il popolo, niente dal popolo”
A Venzone, per ritornare alla nostra memoria storica, la gestione, nell’emergenza, del recupero del patrimonio storico-artistico fu affidata a un comitato, coordinato a livello locale,  in cui confluirono professionisti di alto profilo scientifico e tecnico provenienti un po’ da tutta Italia e oltre; la stessa redazione del  progetto culturale per la ricomposizione del Duomo fu elaborata da un comitato internazionale, istituito dalla locale Fabbriceria. Tale progetto pose le basi per quella che può essere certo definita come una tra le migliori opere di restauro nel Friuli terremotato. Si è già accennato all’apertura dell’Ufficio comunale di progettazione e restauro, teso a coinvolgere l’intera cittadinanza nel processo ricostruttivo.Nel perseguimento della stessa finalità, occorre certo anche ricordare l’istituzione del comitato “19 marzo”, presto dotatosi di un suo bollettino, “Cjase nestre”, che condusse una sistematica azione d’informazione, di critica e di vigilanza sull’operato delle pubbliche amministrazioni. Si deve a questo impegno civico se scaturì quel processo – innestato dalla plebiscitaria adesione cittadina alla mozione sulla ricostruzione – che avrebbe portato, tramite l’intervento del Ministero per i Beni Culturali, alla ricomposizione dell’intero centro storico.

Sacchetto: La gente, in seguito all’iniziativa “Venzone vive”, ha capito la complessità dell’intervento che si andava ad impostare, e a grande maggioranza ha sostenuto la scelta fatta.
A livello politico, notevole peso ha avuto anche il plebiscito popolare degli abitanti del centro storico sulla mozione ricostruttiva.
Alcuni avevano temuto l’installazione degli insediamenti provvisori col timore che si trasformassero in definitivi, come già avvenuto nel Belice. Tuttavia, a seguito della scossa altrettanto disastrosa del 15 settembre, e del conseguente esodo nelle località sulla costa, tutti si sono convinti della necessità della costruzione dei prefabbricati.
A livello istituzionale, cosa ha funzionato, che oggi non funziona più?

Cacitti: Il virtuoso processo di interrelazione fra popolazione, amministrazioni e istituzioni scientifiche si è inceppato innanzi tutto perché il principale dei soggetti, la popolazione, si è ritirato nel privato, lasciando una sorta di delega in bianco alle amministrazioni. Queste, a loro volta, gestiscono sempre più la cosa pubblica come affare proprio, nello sprezzo totale di ogni confronto. 
Sacchetto: Nel 1976 Venzone era sprovvista di strumento urbanistico e questo poneva un problema non da poco per quanto riguardava la realizzazione degli insediamenti provvisori (nel 1977-78) perché la legge che delimitava le aree richiedeva l’adozione di tale strumento. E’ solo un esempio delle molte difficoltà affrontate e risolte grazie all’impegno continuo e sinergico ai vari livelli istituzionali (Regione, Segreteria Straordinaria, Sovrintendenza, Ministeri, etc.)
Da diversi anni mi sembra che la situazione sia statica e che l’azione amministrativa sia concentrata sulla gestione ordinaria e non invece su piani e programmi a medio e lungo termine. Questa situazione è forse imputabile in parte anche al gravoso impegno delle assegnazioni abitative del centro storico, portata avanti dall’attuale amministrazione, e che si trascina da troppi anni.
Qual era la vostra idea di Venzone ricostruita: cosa avrebbe dovuto diventare?

Cacitti: Quello che è iscritto nel suo patrimonio “genetico”: un centro storico entro il quale attivare tutte le risorse – umane, culturali, scientifiche – in grado, per altro, di produrre reddito, dal momento che, com’è noto, i beni culturali, se adeguatamente tutelati e valorizzati, incidono sensibilmente sull’andamento dell’economia anche di un piccolo centro come il nostro. Di contro, la mancata istituzione del Museo della Terra di Venzone, la chiusura del Centro di Documentazione sul terremoto, il degrado in cui versa il centro storico, l’inerzia progettuale  dell’amministrazione pubblica segnalano che si sta non soltanto irridendo il corale e generoso impegno profuso per la ricostruzione, ma si sta sprecando un’occasione di “rinascimento” civile. 

Doglioni: La migliore delle ipotesi era che diventasse esattamente quello che è adesso.

Sacchetto: Le mie perplessità su quello che è oggi Venzone sono relative alla sua economia nel senso più generale.
Il parziale sviluppo economico post-ricostruzione ha indotto parte della popolazione a trasferirsi altrove e numerose sono state le opportunità non colte: il sistema turistico Venzone - Bordano - Lago dei tre comuni; lo scalo ferroviario di interscambio gomma-rotaia a Carnia; le aree artigianali e il Parco delle Prealpi Giulie solo parzialmente realizzati.
Inoltre abbiamo pagato la dismissione parziale delle caserme e il depotenziamento della ferrovia.
Insomma direi che l’80% delle opere previste negli anni ottanta per lo sviluppo economico non ha trovato attuazione.
Ci siamo ripresi, dopo il terremoto, possiamo riprenderci anche dalla crisi economica. Paradossalmente, se la ricostruzione fosse stata più lenta, più spalmata nel tempo, oggi la struttura economica di Venzone sarebbe più solida.
Molto ancora è da fare: penso ai parcheggi di servizio al centro storico; la sua pedonalizzazione e il rafforzamento della sua vocazione turistica; il completamento delle mura, etc.

Quali erano le opzioni ricostruttive? Che rischio si è corso?

Doglioni: Il rischio principale che si è corso è stato quello della perdita della continuità del tempo nel luogo. Spesso non ci si rende conto che i segni del passato, i monumenti ma anche i muri di cinta in pietra, rappresentano “infrastrutture del tempo”, che articolano i luoghi e rendono percepibile il tempo stesso insieme agli eventi, dandoci riferimenti temporali ancor prima che storici. Quando si rischia di perderli del tutto, come è successo a Venzone, ci si rende conto della loro vitale importanza, e questo, a mio avviso, ha almeno in parte motivato la reazione e la resistenza a un cambiamento che sarebbe stato individuale e collettivo, cercando almeno di mitigarlo. Certo, anche il terremoto e la ricostruzione hanno rappresentato una cesura, un prima e un dopo, ma anche questa ferita dei luoghi, come le perdite delle persone, è divenuta ora un patrimonio di memoria individuale e collettiva.
Tornando saltuariamente, come vedete cambiare negli anni Venzone? I venzonesi hanno la percezione del patrimonio così tenacemente riconquistato, o è divenuto, con il passare degli anni, un possesso per così dire “scontato”?
Doglioni: La “normalità” di Venzone ricostruita non finisce di stupirmi ogni volta che vi ritorno. Ogni luogo mi ricorda un episodio, una persona, un’immagine. Tuttavia, pur se mi sento orgoglioso di aver partecipato alla ricostruzione, e se molte persone che visitano Venzone mi manifestano la loro emozione, sento ora quasi un rimpianto per quei momenti pur difficili, in cui le persone si ritrovavano tra le macerie, e l’obiettivo comune ne rafforzava la vicinanza e la solidarietà, dando a ciascuno un’energia che non avremmo sospettato di avere. I legami creati in quegli anni sono tra i più forti, e, anche se vivo lontano, basta una telefonata per ricordarmelo.

Rossignani: Torno ormai poche volte a Venzone e, quando sono lì, mi è difficile non sovrapporre all’immagine attuale quella delle macerie, delle fatiche e delle vicende che hanno portato alla ricostruzione. Sono anche consapevole del fatto che alcuni venzonesi vorrebbero che esistesse una coscienza diffusa e condivisa del bene che è stato loro restituito, ma vorrei proporre di vedere la situazione sotto un’angolatura diversa. Si tratta di un paese ritornato «normale» e come tale la vita che vi si conduce – sotto tutti i punti di vista, ivi compreso quello della tutela e della conservazione del bene comune che è rappresentato dal patrimonio edilizio – è quella che vivono gli abitanti di altre città e paesi d’Italia: ma questo era anche l’obiettivo a cui tendeva la nostra azione. 

Sacchetto: Una parte dei venzonesi è disinteressata e poco attenta al suo patrimonio architettonico, un’altra è invece interessata e attenta: sono due mondi separati che non comunicano tra di loro e viaggiano su livelli paralleli che non si intersecano. Sono tuttavia fiducioso che col tempo i più disattenti cominceranno a sentire come proprio il centro in cui vivono. Noi passiamo e Venzone resta: bisogna guardare avanti.

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