23 maggio 2011

EDITORIALE



Come testimonia la storia del secolo scorso, ogni generazione è stata iniziata a ricorrenti esperienze drammatiche da cui trarre presagi infausti e, nello stesso tempo, volontà di sopravvivere.
Che si sia trattato di catastrofi naturali o eventi scellerati determinati dall’umana pazzia, la vita del dopo è stata segnata da una traccia profonda. Da ferite e da ostinati sentimenti di riscatto.
Nei racconti di mia madre, classe 1908, i ricordi di Caporetto e della “profuganza” ritornavano sempre con i connotati dell’angoscia e insieme della speranza, inspirata questa dalla tenace ricerca che il padre, “Nosent” per chi ne ha memoria, aveva messo in atto ricomponendo la famiglia dispersa in frammenti individuali lungo la penisola.
La mia generazione (1935) ha vissuto, con lutti in ogni casa, la seconda guerra mondiale avvertendo poi, negli anni della formazione, la fiducia che nasceva da quella svolta della storia italiana che ha nome “Costituzione e Repubblica”. 
La generazione delle mie figlie, che con i coetanei venzonesi hanno condiviso la vita in tenda, ha sperimentato il Terremoto del 1976 e quel fervido decennio che contraddistingue la ricostruzione. 
In qualche modo possiamo definirla più fortunata perché almeno non ha da rimproverare alla volontà degli uomini le ricorrenti disgrazie! 
Oggi, all’approssimarsi del 6 maggio, ricordando le esperienze accumulate direttamente o ereditate dalla vita sofferta di chi ci ha preceduto, ci sentiamo di proporre alcune serene considerazioni che non devono avere il clamore dei proclami, ma costituire caldo suggerimento nella usuale pratica quotidiana.


Cerchiamo ogni giorno di non essere sopraffatti dagli eventi o dalle determinazioni prese contro la nostra volontà o senza il nostro consenso. Costringiamoci a partecipare attivamente alla responsabilità delle decisioni che ci riguardano. 
Mettiamo in atto quella faticosa e co stante opera di controllo e di presenza che, fra l’altro, in oltre sessanta anni di vita repubblicana, grazie ai fondamenti ideali della nostra società civile, ha cancellato dall’esperienza individuale l’incubo della guerra.
Ricordiamo come la partecipazione e la volontà dei cittadini siano valse ad ottenere la ricostruzione che oggi onora il Friuli ed in particolar modo Venzone. Quale sarebbero stati, infatti, forma e destino della nostra comunità attuale se nell’opera di rinascita avessero prevalso l’ignoranza delle prerogative locali, la negazione del patrimonio artistico e storico, il disprezzo per l’identità culturale?
Riconosciamo, infine, per cancellare ogni interpretazione egoistica e come auspicio per altre popolazioni, recentemente colpite da eventi naturali, che la nostra esperienza positiva se ha per madre la ferma determinazione della realtà locale ha anche un padre nel solidale impegno di tutti gli italiani. 
                                                       Loris Sormani

IL SENSO DEL RICORDO



Dopo 35 anni è del tutto lecito porsi la domanda se sia ancora il caso di parlare del terremoto del 1976, se non sia il caso di lasciare pian piano cadere le commemorazioni nei ricordi flebili legati ad una semplice data lontana.

Non crediamo lo sia se colleghiamo quella particolare data agli eventi della Storia, perché di Storia in effetti stiamo parlando ed è una Storia che ci ha segnato così profondamente da diventare uno spartiacque nella nostra esistenza.
Ma oltre alle storie personali che ognuno di noi ha vissuto e conserva nel suo intimo, il terremoto del 1976 ha segnato molto da vicino anche il nostro paesaggio, i nostri paesi e i loro monumenti, cambiandone la fisionomia.
La nostra cittadina senza il sisma del 1976 non sarebbe quella che appare oggi; il nostro paese senza quell’evento non sarebbe visitato da centinaia di turisti ogni anno; senza la ricostruzione, proprio così come è stata fatta, la storia di Venzone sarebbe completamente diversa, il suo nome non sarebbe apparso su giornali e riviste, anche e soprattutto specialistiche, e magari la Festa della Zucca non avrebbe avuto tutto il successo riscontrato in questi anni.
La Storia deve essere tramandata di generazione in generazione, non soltanto con  intento celebrativo, ma soprattutto con senso di responsabilità civica, così da permettere, anche a chi non era ancora nato nel 1976, di essere a conoscenza di eventi tanto importanti per i luoghi in cui abita.
E’ certo infatti che un ragazzo può riuscire ad immaginare un domani per sé e per l’ambiente in cui vive solo se la storia di quest’ultimo diventa un tutt’uno con la sua.
Così, noi che eravamo giovani o bambini nel 1976, oggi abbiamo il dovere morale di far nostra e tramandare questa Storia, prima che vada persa del tutto, perché solo lasciando anche ai nostri figli la ricchezza degli eventi vissuti, e solo diventandone consapevolmente orgogliosi, riusciremo ad immaginare il futuro che più si addice a Venzone.
Il futuro di un paese affonda le proprie radici nel suo passato. E, come diceva Indro Montanelli, “un paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un domani”
Purtroppo, in tempi in cui gli eventi si susseguono con una rapidità estrema, si rischia di perdere il senso di questa responsabilità e proprio noi venzonesi, che ogni giorno dovremmo essere grati a chi, lottando contro leggi, impedimenti e spesso interessi meschini, ha voluto il nostro paese così come noi oggi lo vediamo, rischiamo di dimenticarcene.
A volte colui che possiede un tesoro non si accorge del suo capitale, così noi rischiamo di sottovalutare il potenziale del nostro paese e di considerarlo una cosa normale e scontata, con il rischio, nel corso degli anni, di far perdere valore a questo patrimonio.

Non a caso, a volte, si ha la percezione che chi visita occasionalmente Venzone rimanga senza parole davanti al risultato della ricostruzione, ai monumenti, ricomposti come erano e dove erano; a volte si ascolta tale stupore farsi domanda esplicita sul perché questo monumento storico non venga valorizzato adeguatamente e questa sua unicità non ne diventi la linfa vitale.
Forse, per riacquistare questa consapevolezza dovremmo rivolgere lo sguardo alla sorte cui va incontro un centro storico distrutto due anni fa da un altro terremoto. Stiamo parlando de L’Aquila dove i cittadini e i rappresentanti politici stanno lottando proprio per riavere il centro storico dov’era e com’era, per potersi di nuovo riconoscere in esso, per riacquistarne l’anima.
Anche se la ricostruzione del Friuli viene sempre portata ad esempio, evidentemente non ha lasciato molte tracce se in uno Stato dal patrimonio artistico inestimabile ed invidiato in tutto il mondo, messo a rischio quotidianamente dall’elevato grado di sismicità, si trovano ostacoli burocratici e miopie politiche che impediscono di ripetere ciò che qui è stato possibile realizzare. Anche questa vicenda può essere letta, con senso critico, come una dimostrazione che noi abbiamo lasciato scorrere la storia del terremoto senza radicarla dentro noi stessi.



Sarebbe bello se noi friulani, ma in particolare modo noi venzonesi, ci rendessimo davvero conto di cosa abbiamo quotidianamente sotto gli occhi e imparassimo a rivalutarlo, così da diventare una forza per altre comunità colpite dalla stessa sorte e, perché no, anche per farci portavoce di una coscienza civica che porti il nostro esempio a diventare prassi.

IL TERREMOTO IN CIFRE



Il San Simiòn no l’à tradît la sò int”, si leggeva fino a una decina di anni fa su una pietra del sentiero che sale al M. San Simeone da Interneppo. L’anonimo estensore voleva così “riappacificarsi” con un monte che, con i suoi prati, pascoli e boschi, è stato sempre una risorsa per i paesi situati alle sue pendici, ma che dopo il 6 maggio 1976 era avvolto da una fama infausta, in quanto da tutti identificato come l’epicentro del sisma.

Tale scritta si è tuttavia rivelata veritiera poiché, da una più completa e accurata analisi dei dati sismici effettuata negli anni ‘90, si è trovato che l’ipocentro  della scossa distruttiva delle ore 21.00 non si trovava al di sotto del M. San Simeone, ma una decina di chilometri più a sud-est, appena in comune di Lusevera, non lontano da Pradielis. 
Tra il M. San Simeone e il M. Brancot, nei pressi di Bordano, era localizzato invece l’epicentro del sisma delle 11.21 del 15 settembre 1976, quello che a Venzone ha fatto crollare ciò che restava del Duomo e il suo campanile.
Infatti, anche se chi ha vissuto quel periodo se lo ricorda bene, i  più giovani forse non sanno che dopo il terremoto del 6 maggio ci sono state nel settembre dello stesso anno altre quattro potenti scosse: due nel tardo pomeriggio del giorno 11 (magnitudo 5,1 e 5,6) e altre due più forti quattro giorni dopo, appunto il 15 settembre, alle 5.15 e alle 11.21 del mattino, di magnitudo 5,8 e 6,1 Richter rispettivamente.
Ricordiamo che la magnitudo Richter fornisce una stima dell’energia liberata dal terremoto, mentre l’intensità superficiale viene stimata dai suoi effetti sui manufatti umani e sul paesaggio e viene misurata dalla scala MCS (Mercalli-Cancani-Sieberg).
La magnitudo Richter del sisma del 6 maggio è stata di 6,4, mentre i suoi effetti nell’area più colpita sono stati vicini al X grado MCS.
Le due scale quindi misurano quantità diverse, non sono confrontabili e non vanno confuse: un terremoto può avere una magnitudo elevata ma un’intensità superficiale ridotta perché colpisce un’area semideserta e il suo ipocentro è situato in profondità. Viceversa, se l’ipocentro è superficiale e il sisma colpisce una zona densamente popolata e con costruzioni inadeguate, anche una  magnitudo non alta può provocare ingenti danni e numerose vittime. 


I paragoni più vicini nel tempo, ma lontani per energia liberata, sono il terremoto de L’Aquila del 6 aprile 2009 e quello di Sendai in Giappone dell’11 marzo scorso, quest’ultimo è stato uno dei  maggiori degli ultimi cento anni. Le magnitudo all’ipocentro furono di 5,9 e 9.0 Richter rispettivamente. 
Il record, al momento, spetta al terremoto di Valdivia (Cile) del 1960, con una magnitudo registrata di 9,5. Le vittime di questo gigantesco sisma furono meno di 2500, mentre quelle del terremoto di Haiti del 2010, di magnitudo ben inferiore (7,0) furono oltre 100.000, a riprova di quanto dicevamo sopra.
Poiché al crescere di un grado di magnitudo l’energia sviluppata viene moltiplicata per un fattore di circa 32, il terremoto del Friuli del 6 maggio è stato 5,6 volte più “potente” di quello de L’Aquila, mentre quello del Giappone lo è stato oltre 5600 volte quello del Friuli.
Allo stato attuale la scienza non è in grado di prevedere i terremoti con sufficiente precisione, né probabilmente potrà farlo nel prossimo futuro. Pur esistendo alcune tecniche promettenti, come la variazione dell’emissione di gas radon dal suolo nei giorni e nelle ore precedenti un sisma, queste non funzionano sempre e quindi non sono ancora affidabili. 
Oggi è possibile solamente fare delle stime statistiche, indicando delle zone (troppo vaste per una reale previsione) in cui è più probabile aspettarsi un terremoto di determinata intensità, senza però poter specificare una data, anche approssimativa.
L’unica difesa è quindi quella della prevenzione, educando la popolazione al rischio, costruendo edifici antisismici ed evitando accuratamente gli insediamenti in zone a rischio idrogeologico o comunque pericolose, dove i geologi abbiano identificato la presenza di faglie attive o di terreni incoerenti.
Ricordare il terremoto del 6 maggio 1976 e le sue vittime è quindi ricordare che viviamo in una zona sismica. 
E’ sapere che, come in passato, anche anche in futuro ci saranno altri terremoti. 
E’ evitare che, specie nelle giovani generazioni, questa consapevolezza, già lontana, impallidisca per poi svanire. 
L’occasione che questo anniversario ci offre è proprio quella di essere uno sprone a non abbassare la guardia, a studiare e a curare il territorio e a seguire regole di costruzione e urbanistiche ben chiare, sapendo che, in questo caso, siamo noi a doverci adeguare alla natura.

L'INTERVISTA






Quando, alcuni mesi fa, come gruppo di minoranza e come redazione de Il Sfuei, abbiamo cominciato ad interrogarci su come dare un contributo alla memoria di quegli eventi ormai lontani nel tempo, ma ancora tanto presenti in molti di noi (sul perché farlo ci siamo già espressi negli interventi sopra riportati), è nata l’idea di porre delle domande ad alcuni dei protagonisti della ricostruzione di Venzone. La formula che ci è parsa migliore è stata quella di una sorta di tavola rotonda in cui le voci ed i pensieri dei nostri interlocutori potessero intrecciarsi e completarsi vicendevolmente.
Abbiamo parlato con Remo Cacitti, professore associato di Storia del Cristianesimo antico presso l’Università degli Studi di Milano; Francesco Doglioni, professore associato di Restauro dell’Università Iuav di Venezia; Maria Pia Rossignani, professore ordinario di Archeologia presso l’Università Cattolica di Milano e Antonio Sacchetto, Sindaco del terremoto.
E’ impresso nella vostra memoria un momento, un’immagine, un ricordo di Venzone che riacquista il suo volto durante la ricostruzione?

Cacitti: Le fasi dell’installazione delle capriate del Duomo. A quello spazio che, dal 15 settembre 1976, era rimasto aperto, senza discontinuità fra dentro e fuori, veniva ridata compiuta forma: finalmente si poteva percepire il passaggio dal caos della distruzione all’ordine della ricomposizione. Il terremoto non aveva avuto l’ultima parola, perché alla sua violenza “naturale” avevamo saputo opporre la nostra forza “culturale”, capace di far deviare l’inesorabile corsa verso la rovina (fisica e morale) in progettualità, scienza, tecniche, partecipazione popolare, rapporti istituzionali.

Doglioni: Nel tardo pomeriggio del giorno che precedeva l’inaugurazione, nella chiesa di S. Giacomo e Anna, appena ricostruita dagli artigiani di Venzone condotti da Armando Copetti, sono entrate alcune donne per pulire i vetri, e il coro ha iniziato le prove. Ricordo l’intensa emozione che ho provato a sentire quelle voci, in quel primo momento di riacquistata normalità.

Rossignani: Era il 16 dicembre del 1982, ero tornata a Venzone per accompagnare nel suo ultimo tragitto una persona che mi era stata cara; mi chiamava “frute” e mi aveva detto sempre poche parole, che conservo ancora nel cuore, come il suo ricordo. Era una giornata tersa e fredda; mentre percorrevo con il corteo funebre il tragitto lungo le mura, ho alzato lo sguardo e, sopra il profilo del paese distrutto, ho visto, illuminate dal sole, le gru dei cantieri da poco tempo aperti: in quel momento ho avuto la certezza che la ricostruzione era iniziata e, nonostante il momento triste, sono stata felice. Tutte le fatiche, i contrasti, le delusioni e le speranze che avevano connotato la nostra azione facevano parte di un passato e il presente era costituito da quelle frecce luminose che si stagliavano nel cielo. Altri momenti duri aspettavano la comunità di Venzone (il più crudele di tutti, perchè volontario, l’incendio al capannone in cui erano ricoverati gli arredi del Duomo, divampato in una tragica notte della primavera del 1983), ma il processo era ormai inarrestabile.

Sacchetto: La più bella immagine che ricordo è successiva al varo della legge n. 2 del 1982, che consentiva la ricostruzione filologica della nostra cittadina e di via Bini a Gemona: e cioè vedere Venzone con una foresta di gru svettanti con i bracci orizzontali, che come in una danza ruotavano sfiorandosi. Era stata posta attenzione a far loro ottimizzare lo spazio limitato a disposizione. 
Per me, dopo anni di lavoro per portare a compimento l’enorme attività di progettazione, questo momento ha rappresentato il simbolo della rinascita.
Qual è stato l’impulso che ha animato la vostra azione, il vostro intervento? E nella società di oggi esiste ancora questa nozione di impegno?

Cacitti: Uno dei migliori libri scritti sul terremoto ha per titolo “Pa sopravivence, no pa l’anarchie”. In effetti, l’impulso primario è stato quello della sopravvivenza, il che ha significato porsi immediatamente la questione di cosa fare, come reagire, in che direzione muoversi; si è senza indugio pensato al futuro e, nel nostro caso specifico, a quale ipotesi ricostruttiva del territorio far riferimento. Si è allora imposto il confronto con le esperienze più prossime di ricostruzione dopo catastrofe, cui dedicammo anche un convegno di studi. La prima opzione fu ideologica: il territorio, l’urbanistica, l’architettura, i beni culturali investiti dal terremoto rappresentavano, a nostro giudizio, le variegate sfaccettature di un unico prisma, quello dell’identità friulana. Se, allora, la questione era incentrata preminentemente sulla tutela della lingua, noi allargammo la visuale anche a questi ulteriori aspetti, convinti che i caratteri propri di una nazione si configurassero anche nella sua cultura materiale, nell’antropizzazione del territorio, nelle sue architetture, nei suoi manufatti artistici, cioè nella sua cultura. Questa scelta fu oggettivamente favorita dal discredito di cui godeva quella opposta, ben sintetizzata dalle infauste parole che allora si sentivano spesso: “La ruspa è il primo passo verso la ricostruzione”. In realtà, le modalità di ricostruzione dopo catastrofe più prossime, quelle di Longarone (1963) e quella del Belice (1968), stavano a testimoniare che sulle rovine di quei luoghi era stato sparso il sale della speculazione, dell’improvvisazione, dell’incompetenza, della volgarità, della bruttezza. Era possibile evitare il ripetersi di questi fenomeni, che l’allora Arcivescovo di Udine, al rientro da una visita in Belice, aveva santamente definito “genocidio culturale”? La risposta poteva essere data all’interno delle mura stesse del centro storico, riconsiderando il lavoro di ricomposizione per anastilosi portato a termine alla fine degli anni ’50, dopo la distruzione bellica, del palazzo municipale. L’istituzione dell’Ufficio comunale di progettazione e restauro – da noi fortemente voluto e ben attivo nell’estate del ’76 – intendeva appunto dar prova che si poteva restaurare e ricomporre le membra disarticolate di un organismo ancora dotato di vita. Tale organismo è costituito dai cittadini, per cui spettava a noi tutti ridare forma, nel consesso civile, a Venzone. 

Rossignani: Ciascuno ha una sua storia, ma la storia di molti fra quelli che hanno operato come volontari a Venzone era una storia condivisa, aveva le sue radici nell’impegno civile e politico scaturito nella svolta epocale che ha inciso nella storia d’Italia, come in quella di molte altre nazioni europee, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Fra i tanti slogan, uno “il personale è politico” riassume bene quali erano le spinte e le convinzioni di quegli anni, che non erano poi molto lontani dal 1976. Anche il libro che abbiamo voluto scrivere: “Le pietre dello scandalo. La politica dei beni culturali nel Friuli del terremoto” uscito nel 1980, rientra in questa logica, convinti come siamo stati che l’esperienza che avevamo vissuto e che stavamo vivendo richiedesse di essere sottoposta ad analisi per poter servire ad altri. Di quel libro vorrei riproporre un passo della densa e lucida prefazione di Andrea Emiliani, colui che ci aveva insegnato a leggere e a riflettere sul concetto stesso di «patrimonio culturale» e sulla necessità della sua difesa: “Un «libro bianco» come questo [...] disteso in mesi accalorati e drammatici, pretende di riportare a oggi, cioè a quattro anni di distanza, il fervore individuale e sociale dell’intervento, sovrapponendo purtroppo a quello anche la malinconia della disillusione. Tutto questo serve ad andare avanti. Non si tratta infatti del solito cahier de doléances, anche se oggi più che allora l’intrico delle competenze, delle responsabilità, delle scelte e non scelte, s’é fatto così fitto e minaccioso da non poterne uscire se non con disaffezione e profonda mestizia. Le affermazioni di allora portano, certo, il peso della fatica di un penoso cammino. [...]  Ripeterle oggi significa soprattutto non aver voluto perdere il senso di quella partecipazione anche animosa (come avrebbe potuto essere diversa?) ma voler contribuire ancora alla risoluzione di un problema gigantesco”. La mestizia di cui si parla è oggi raddoppiata, centuplicata, nel seguire le notizie che riguardano L’Aquila, che portano a constatare amaramente quanto sia difficile o addirittura non si voglia, nel nostro paese, fare tesoro delle esperienze pregresse.
Rispondere alla seconda parte della vostra domanda non può essere il semplice «no» che sarei tentata di dare. Perchè è necessario allargare lo sguardo alle condizioni in cui vive la nostra società, all’atrofia del pensiero, certamente indotta e alla quale non si è in grado di contrapporre modelli convincenti di impegno sociale e politico nei quali – soprattutto i giovani – si possano riconoscere. Eppure sono certa che le forze e le potenzialità ci siano, ma è necessario risalire la china di questa disgregazione, mettendo a punto modalità di intervento che, in una società mutata, non possono che essere diverse da quelle che hanno visto la nostra partecipazione volontaria nel Friuli terremotato. Questo non solo perché nei casi più recenti di catastrofi – mi riferisco al terremoto aquilano – il volontariato è stato fortemente disincentivato, ma anche e soprattutto perché  sono venute meno, mi sembra, le condizioni che possano favorire aggregazioni e mobilitazioni sulla base di spinte ideali e politiche. Sarebbe allora necessario e possibile fare sì che Università e istituzioni culturali siano  riconosciute come soggetti in grado di offrire conoscenze e competenze, mettendo a punto strategie di intervento che favoriscano un coinvolgimento democratico e civile.
Ma democrazia significa anche controllo e questo, in molti casi, fa paura.

Sacchetto: Nel 1975 per la prima volta fui eletto sindaco con una lista che oggi si direbbe di “centrosinistra”, avevo 36 anni e dopo appena 10 mesi mi sono trovato ad affrontare l’emergenza.
L’evento propulsore che ha stimolato la nostra azione è stato la manifestazione “Venzone vive”: un momento di aggregazione e di confronto tra diversi attori, tra cui ricordo l’Università della Pennsylvania, esperti da Varsavia (ricostruita per anastilosi dopo la guerra), da Praga, studiosi di livello internazionale e amministratori locali.
E’ stata l’occasione per chiarire con la popolazione le modalità di ricostruzione e di comparare diversi modelli.
Qual era il sentimento dominante in paese, cosa spingeva la gente a sostenervi e a reagire?

Cacitti: In tutto il Friuli terremotato emerse spontanea l’istanza di partecipazione al processo di ricostruzione: la formazione dei comitati cittadini, il coordinamento fra le tendopoli prima e le baraccopoli poi, la frequenza delle assemblee popolari, la fitta rete di comunicazione attraverso ciclostilati, fogli, giornali. Tutto ciò costituì un chiaro indicatore della volontà di non delegare supinamente la delineazione del progetto ricostruttivo, rivendicando il diritto delle popolazioni a costituirsi come soggetto attivo e informato in ogni fase dell’immenso cantiere che si stava aprendo. Il Friuli rappresentò una netta cesura rispetto ai modelli centralistici e verticistici con cui si era fino ad allora operato per affrontare la catastrofe: se questa innovazione molto giovò successivamente nelle Marche e in Umbria (1997), anche per l’apporto di esperienze nate a Venzone, al contrario in Irpinia (1980) e recentemente a L’Aquila (2009) si è ritornati a una gestione assolutista, secondo il motto asburgico assunto anche dagli attuali despoti: “Tutto per il popolo, niente dal popolo”
A Venzone, per ritornare alla nostra memoria storica, la gestione, nell’emergenza, del recupero del patrimonio storico-artistico fu affidata a un comitato, coordinato a livello locale,  in cui confluirono professionisti di alto profilo scientifico e tecnico provenienti un po’ da tutta Italia e oltre; la stessa redazione del  progetto culturale per la ricomposizione del Duomo fu elaborata da un comitato internazionale, istituito dalla locale Fabbriceria. Tale progetto pose le basi per quella che può essere certo definita come una tra le migliori opere di restauro nel Friuli terremotato. Si è già accennato all’apertura dell’Ufficio comunale di progettazione e restauro, teso a coinvolgere l’intera cittadinanza nel processo ricostruttivo.Nel perseguimento della stessa finalità, occorre certo anche ricordare l’istituzione del comitato “19 marzo”, presto dotatosi di un suo bollettino, “Cjase nestre”, che condusse una sistematica azione d’informazione, di critica e di vigilanza sull’operato delle pubbliche amministrazioni. Si deve a questo impegno civico se scaturì quel processo – innestato dalla plebiscitaria adesione cittadina alla mozione sulla ricostruzione – che avrebbe portato, tramite l’intervento del Ministero per i Beni Culturali, alla ricomposizione dell’intero centro storico.

Sacchetto: La gente, in seguito all’iniziativa “Venzone vive”, ha capito la complessità dell’intervento che si andava ad impostare, e a grande maggioranza ha sostenuto la scelta fatta.
A livello politico, notevole peso ha avuto anche il plebiscito popolare degli abitanti del centro storico sulla mozione ricostruttiva.
Alcuni avevano temuto l’installazione degli insediamenti provvisori col timore che si trasformassero in definitivi, come già avvenuto nel Belice. Tuttavia, a seguito della scossa altrettanto disastrosa del 15 settembre, e del conseguente esodo nelle località sulla costa, tutti si sono convinti della necessità della costruzione dei prefabbricati.
A livello istituzionale, cosa ha funzionato, che oggi non funziona più?

Cacitti: Il virtuoso processo di interrelazione fra popolazione, amministrazioni e istituzioni scientifiche si è inceppato innanzi tutto perché il principale dei soggetti, la popolazione, si è ritirato nel privato, lasciando una sorta di delega in bianco alle amministrazioni. Queste, a loro volta, gestiscono sempre più la cosa pubblica come affare proprio, nello sprezzo totale di ogni confronto. 
Sacchetto: Nel 1976 Venzone era sprovvista di strumento urbanistico e questo poneva un problema non da poco per quanto riguardava la realizzazione degli insediamenti provvisori (nel 1977-78) perché la legge che delimitava le aree richiedeva l’adozione di tale strumento. E’ solo un esempio delle molte difficoltà affrontate e risolte grazie all’impegno continuo e sinergico ai vari livelli istituzionali (Regione, Segreteria Straordinaria, Sovrintendenza, Ministeri, etc.)
Da diversi anni mi sembra che la situazione sia statica e che l’azione amministrativa sia concentrata sulla gestione ordinaria e non invece su piani e programmi a medio e lungo termine. Questa situazione è forse imputabile in parte anche al gravoso impegno delle assegnazioni abitative del centro storico, portata avanti dall’attuale amministrazione, e che si trascina da troppi anni.
Qual era la vostra idea di Venzone ricostruita: cosa avrebbe dovuto diventare?

Cacitti: Quello che è iscritto nel suo patrimonio “genetico”: un centro storico entro il quale attivare tutte le risorse – umane, culturali, scientifiche – in grado, per altro, di produrre reddito, dal momento che, com’è noto, i beni culturali, se adeguatamente tutelati e valorizzati, incidono sensibilmente sull’andamento dell’economia anche di un piccolo centro come il nostro. Di contro, la mancata istituzione del Museo della Terra di Venzone, la chiusura del Centro di Documentazione sul terremoto, il degrado in cui versa il centro storico, l’inerzia progettuale  dell’amministrazione pubblica segnalano che si sta non soltanto irridendo il corale e generoso impegno profuso per la ricostruzione, ma si sta sprecando un’occasione di “rinascimento” civile. 

Doglioni: La migliore delle ipotesi era che diventasse esattamente quello che è adesso.

Sacchetto: Le mie perplessità su quello che è oggi Venzone sono relative alla sua economia nel senso più generale.
Il parziale sviluppo economico post-ricostruzione ha indotto parte della popolazione a trasferirsi altrove e numerose sono state le opportunità non colte: il sistema turistico Venzone - Bordano - Lago dei tre comuni; lo scalo ferroviario di interscambio gomma-rotaia a Carnia; le aree artigianali e il Parco delle Prealpi Giulie solo parzialmente realizzati.
Inoltre abbiamo pagato la dismissione parziale delle caserme e il depotenziamento della ferrovia.
Insomma direi che l’80% delle opere previste negli anni ottanta per lo sviluppo economico non ha trovato attuazione.
Ci siamo ripresi, dopo il terremoto, possiamo riprenderci anche dalla crisi economica. Paradossalmente, se la ricostruzione fosse stata più lenta, più spalmata nel tempo, oggi la struttura economica di Venzone sarebbe più solida.
Molto ancora è da fare: penso ai parcheggi di servizio al centro storico; la sua pedonalizzazione e il rafforzamento della sua vocazione turistica; il completamento delle mura, etc.

Quali erano le opzioni ricostruttive? Che rischio si è corso?

Doglioni: Il rischio principale che si è corso è stato quello della perdita della continuità del tempo nel luogo. Spesso non ci si rende conto che i segni del passato, i monumenti ma anche i muri di cinta in pietra, rappresentano “infrastrutture del tempo”, che articolano i luoghi e rendono percepibile il tempo stesso insieme agli eventi, dandoci riferimenti temporali ancor prima che storici. Quando si rischia di perderli del tutto, come è successo a Venzone, ci si rende conto della loro vitale importanza, e questo, a mio avviso, ha almeno in parte motivato la reazione e la resistenza a un cambiamento che sarebbe stato individuale e collettivo, cercando almeno di mitigarlo. Certo, anche il terremoto e la ricostruzione hanno rappresentato una cesura, un prima e un dopo, ma anche questa ferita dei luoghi, come le perdite delle persone, è divenuta ora un patrimonio di memoria individuale e collettiva.
Tornando saltuariamente, come vedete cambiare negli anni Venzone? I venzonesi hanno la percezione del patrimonio così tenacemente riconquistato, o è divenuto, con il passare degli anni, un possesso per così dire “scontato”?
Doglioni: La “normalità” di Venzone ricostruita non finisce di stupirmi ogni volta che vi ritorno. Ogni luogo mi ricorda un episodio, una persona, un’immagine. Tuttavia, pur se mi sento orgoglioso di aver partecipato alla ricostruzione, e se molte persone che visitano Venzone mi manifestano la loro emozione, sento ora quasi un rimpianto per quei momenti pur difficili, in cui le persone si ritrovavano tra le macerie, e l’obiettivo comune ne rafforzava la vicinanza e la solidarietà, dando a ciascuno un’energia che non avremmo sospettato di avere. I legami creati in quegli anni sono tra i più forti, e, anche se vivo lontano, basta una telefonata per ricordarmelo.

Rossignani: Torno ormai poche volte a Venzone e, quando sono lì, mi è difficile non sovrapporre all’immagine attuale quella delle macerie, delle fatiche e delle vicende che hanno portato alla ricostruzione. Sono anche consapevole del fatto che alcuni venzonesi vorrebbero che esistesse una coscienza diffusa e condivisa del bene che è stato loro restituito, ma vorrei proporre di vedere la situazione sotto un’angolatura diversa. Si tratta di un paese ritornato «normale» e come tale la vita che vi si conduce – sotto tutti i punti di vista, ivi compreso quello della tutela e della conservazione del bene comune che è rappresentato dal patrimonio edilizio – è quella che vivono gli abitanti di altre città e paesi d’Italia: ma questo era anche l’obiettivo a cui tendeva la nostra azione. 

Sacchetto: Una parte dei venzonesi è disinteressata e poco attenta al suo patrimonio architettonico, un’altra è invece interessata e attenta: sono due mondi separati che non comunicano tra di loro e viaggiano su livelli paralleli che non si intersecano. Sono tuttavia fiducioso che col tempo i più disattenti cominceranno a sentire come proprio il centro in cui vivono. Noi passiamo e Venzone resta: bisogna guardare avanti.

LA VOLPE DI SANTA CATERINA



Era stata una giornata calda, troppo calda per la stagione, avevo cercato per tutta la mattinata di riuscire a prendere una gallinella nel pollaio della casa qui vicino, nel posto che gli umani chiamano S. Caterina, ma i cani da guardia erano più aggressivi e inquieti del solito, e anch’io ero più distratta, cosa che non mi accade mai. I miei tre piccoli invece dormicchiavano nella tana sopra il piano, dormicchiavano e giocavano, come hanno sempre fatto da quando sono nati, una luna fa.
Finalmente il sole è calato, il caldo si è attenuato, ma non c’è nemmeno un filo di vento, anche l’acqua della solita sorgente in cui bevo non è mai stata poca come oggi. 
La sera non ha portato la solita calma, non capisco cosa sia questa inquietudine che sento, mi sporgo fuori dalla tana, annuso l’aria e non capisco. Il bosco è sempre lo stesso, lo conosco bene, ci sono nata, eppure stasera è quasi pauroso, come se le ombre fossero più lunghe e nere del solito. Non sento odore di umani o di altri animali nelle vicinanze, eppure sono guardinga, giro attorno, cosa c’è che non va? Forse è il latrare dei cani che va e viene, alternato da lunghe pause, che proviene dal piano e da più giù ancora, dal posto pieno di umani che a volte osservo dall’alto e che chiamano Venzone. 
Forse è il silenzio del bosco, perché non sento passare qualche capriolo? Eppure a quest’ora ne ho sempre visti... e gli uccelli notturni? Perché non odo i loro richiami? Nemmeno il gufo si sente...
Ho allattato i piccoli, che adesso dormono di nuovo, io invece non riesco a riposare, sono sempre più agitata, cosa mi succede? Cosa succede?
Una vibrazione, la tana ha un sussulto, i piccoli si svegliano. E’ durata pochissimo, ma a questo punto non ce la faccio più ed esco con tutti e tre nel bosco. Forse è una pazzia, è buio e io sono nel bosco, praticamente allo scoperto, se arrivasse qualche predatore non riuscirei a difendere i piccoli, che adesso mugolano assonnati. Tutto tace, silenzio assoluto.
Poi sento, più che con le orecchie, con il corpo, con il torace, un rombo basso che sale, sale da non so dove, forse da un qualche “dentro”. Poco fa lo percepivo appena, ma adesso lo odo distintamente, e fa paura. I piccoli mi guardano perplessi. Mentre cerco di tranquillizzarli con una leccata, sento una folata di vento caldo e al rombo si sovrappone il rumore delle foglie che si muovono. 
Improvvisamente il terrore. Il terreno balza in alto ed io pure, poi in basso, poi ancora di lato, non si ferma. Gli alberi sono scossi dalle radici così violentemente che ho paura ci cadano addosso. Grossi massi rotolano schiantando il bosco al loro passaggio. Come impazziti io e i piccoli corriamo verso il basso, ma è difficile: tutto si muove, inciampiamo, ansimiamo, tutto cade, rotola, si spezza, e il rombo è diventato assordante. Loro restano indietro, li aspetto, non riesco io a stare ferma sulle quattro zampe, figurarsi loro. 
Guardo verso il monte: lampi rossi lo illuminano, ma non è un temporale. Tutto trema ancora, perché non finisce? 
Non so come raggiungiamo il piano, finalmente si è fermato. 
Di sassi però ne scendono ancora molti, attraversiamo veloci il prato per toglierci dal pericolo, faccio in tempo a notare che la chiesa non c’è più. Ci ritroviamo tutti e quattro sul bordo del piano, dove ogni tanto mi fermavo a guardare il fiume, laggiù. 
Ora è tornato quel grande silenzio, siamo graffiati e atterriti, ma siamo insieme. 
Guardo verso il basso: non ci sono più le solite luci che vedevo nel luogo chiamato Venzone.
Al suo posto il quarto di luna crescente illumina un gran polverone...